Ecco un Ted Talk che ce lo spiega.

Il razzismo è stato uno dei temi caldi del 2020 (forse dietro solo alla pandemia, di cui potreste aver sentito parlare), nonché una delle questioni che maggiormente ha polarizzato l’opinione pubblica, americana e mondiale, per via di vari eventi di cronaca, delle proteste del Black Lives Matter e delle elezioni americane. Senza la presunzione di dare torti e ragioni, è interessante analizzare la questione da un altro punto di vista, forse meno idealista e più cinico, ma non per questo meno importante. In nostro aiuto ci viene un Ted talk.

Ma prima, cos’è un Ted talk?

In sintesi, un Ted non è altro che una conferenza, in cui un esperto di una materia parla al pubblico, con chiarezza e semplicità, per far conoscere alcuni aspetti e alcuni problemi di cui la sua disciplina si occupa. Prendendo in prestito il loro motto (“ideas worth spreading”), si tratta di idee e fatti che meritano di essere condivisi e divulgati, e a cui tutti possono accedere, almeno online.

In questo caso a parlare è Heather McGhee, esperta di politiche sociali ed economiche USA, che spiega come il razzismo abbia danneggiato, nel tempo, non solo chi tenta di discriminare, ma anche chi dovrebbe in teoria privilegiare.

Il racconto parte con Gary, uomo bianco che, in diretta TV, afferma “di avere molti pregiudizi sui neri” ma anche “di voler cambiare, e sapere cosa può fare per diventare un cittadino migliore”. Ne nasce uno scambio, in cui Heather si mostra in un primo momento sorpresa, per poi rendersi conto di quanto quello di Gary sia un gesto forte, che ha richiesto molto coraggio ma che apre le porte alla speranza di cambiare.

Adesso prendiamo una macchina del tempo (tutti ne hanno una, su) e spostiamoci nell’Alabama degli anni ’50.

La città è Montgomery, il luogo è Oak Park, dove c’è la più grande piscina pubblica dello stato. Potenzialmente un bel luogo, di gioia e aggregazione, se non fosse per il razzismo. La piscina infatti, seppur finanziata da tutti, è accessibile solo ai cittadini di pelle bianca. Quando la corte federale decreta l’apertura anche agli afro americani, il comitato che la gestisce decide di chiuderla definitivamente, danneggiando tutti, bianchi e neri, privilegiati e discriminati. Il razzista preferisce danneggiare sé stesso, pur di non dare diritti ad altri. Ah, dimenticavo: oggi Oak Park non ha alcuna piscina.

Tempi diversi, direte voi. Non proprio.

Prendiamo di nuovo la macchina del tempo, stavolta Heather ci porta nel 2017, in Mississippi. Qui gli operai di una fabbrica devono decidere e votare per la fondazione di un sindacato che ne difenda i diritti. Vi è un forte conflitto interno. Infatti, i lavoratori bianchi pare non vogliano votare a favore, se a farlo saranno anche i neri. Il sentimento alla base è che “se sostieni i neri, non sostieni i bianchi”. Easy as that. Il progetto alla fine fallirà, i salari rimarranno bassi e la copertura sanitaria inadeguata. Ancora una volta, stereotipi razziali danneggiano tutte le parti in causa.

Facciamo adesso un piccolo passo in avanti: 15 settembre 2008. Il crack di Lehman Brothers da inizio alla più grande crisi finanziaria dopo quella del ‘29. Solo in USA 19 miliardi di ricchezza distrutti e 8 milioni di posti di lavoro persi. Senza volerci sostituire a fini economisti e cultori della materia, sembra che tra le cause principali ci siano stati i mutui subprime, strumenti finanziari tossici. Heather afferma che i cittadini neri, almeno inizialmente, avessero una probabilità 3 volte maggiore rispetto ai bianchi di contrarre uno di questi mutui.

Questo a causa di uno stereotipo ben radicato, per cui i neri sarebbero più propensi, rispetto ai bianchi, ad acquistare proprietà non alla loro portata. Stereotipo sbagliato, secondo i dati della McGhee. Il problema infatti non era il mutuatario, era il mutuo. Tanto che numerosi istituti di credito sono stati successivamente multati per discriminazione razziale. Troppo tardi però, perché nel frattempo i mutui subprime hanno conquistato il mercato, anche quello dei bianchi. Indirettamente, il razzismo ha danneggiato anche loro.

Attenzione, ci sono comunque anche esempi diversi, positivi. Come accaduto a Lewiston, Maine, un tempo un desolato villaggio operaio.

Qui, un programma di integrazione tra autoctoni e immigrati ha consentito di dare nuova linfa a un luogo che, altrimenti, sarebbe stato lentamente abbandonato. Certo, i programmi di integrazione non sono mai facili, e tante variabili entrano in gioco, ma quando fatti bene possono aiutare comunità diverse a costruire una casa comune. E a prescindere dalle idee sociopolitiche, basta il mero dato economico a confermare quanto il razzismo sia dannoso, e quanto una visione opposta possa essere invece fruttuosa: 40 milioni di dollari di indotto in tasse e 130 milioni in utili, che hanno consentito all’amministrazione cittadina di costruire nuove scuole e infrastrutture. Con un certo orgoglio tra l’altro, vista la situazione diametralmente opposta di altri luoghi vicini.

Dopo questo viaggio, nello spazio e nel tempo, possiamo tornare a casa, forti di nuove consapevolezze e anche di un paio di cartoline da distribuire ad amici e parenti. Nel mondo di oggi, le nostre vite sono così intimamente connesse che, probabilmente, il motto “mors tua vita mea” è superato e anzi, sabotando gli altri rischiamo di sabotare anche noi stessi. Mai come in quest’epoca, di enorme sviluppo ma anche di grandi minacce, tra pandemie e cambiamenti climatici, c’è bisogno di essere uniti, di agire come un team.

E’ sempre facile? Probabilmente no.

E’ necessario? Probabilmente si.

Per quanto la strada sia ancora molto lunga, superare razzismo e discriminazioni sembra fondamentale per adottare un nuovo modello di comunità, in grado di migliorare la vita di tutti, sia nei contesti più piccoli che in quelli più grandi. Del resto, nessuno azzopperebbe volontariamente i calciatori della propria squadra, quindi perché farlo noi?

Simone Cuccaro

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